L’ISTAT nel rapporto Noi Italia, 2016 ha nuovamente rivolto l’attenzione al tema dei “consumi culturali” (libri, cinema, teatro, musei, mostre; ecc.) evidenziando come gli italiani destinino a questi soltanto il 6,5% del totale delle loro spese. Questo dato rimette in discussione quello che sembrava un trend oramai stabilmente in crescita negli ultimi anni (Ocse, 2011) ovvero che il benessere fosse legato in misura significativa ad aspetti immateriali quali la fruizione di arte, di cultura e comunque di esperienze di benessere non necessariamente riconducibili ad aspetti materiali dell’esistenza (Iavarone, 2016). E’ evidente, tuttavia, che il consumo culturale varia da contesto a contesto, da epoca ad epoca sotto la spinta di dinamiche complesse attraverso le quali una società costruisce e rafforza la propria identità ed i propri sistemi di trasmissione culturale. Questo ultimo aspetto, in particolare, va attentamente riferito ai sistemi educativi, soprattutto alla formazione dei giovani e degli adulti, quale bacino di consumo di maggiore elezione. E’ evidente che il consumo culturale correla con migliori livelli di istruzione: una recente indagine (Shaw, 2016) evidenzia, ad esempio, come individui appartenenti a classi economicamente svantaggiate, con bassi livelli di scolarità e nessuna propensione al consumo culturale risultino, di contro, i maggiori acquirenti di i-phone di ultima generazione. Da qui l'esigenza di individuare un paradigma interpretativo attraverso il quale riconcettualizzare la dialettica educazione-cultura-sviluppo-consumo. Il presente contributo si propone di interpretare, attraverso un’analisi interdisciplinare che incrocia dati economici, sociali, demografici ed ambientali, la correlazione tra bassi livelli di istruzione e formazione, scarsa attività e bassissima propensione al consumo culturale. In particolare viene rivolta attenzione al fenomeno dei NEET, giovani compresi tra 16 e 24 anni non impegnati nello studio, né nel lavoro, che hanno smesso di cercare un’occupazione e con nessuna motivazione al rientro in formazione eppure fortemente tecnologizzati, anche ai livelli di istruzione più bassi. L’incidenza crescente di questi giovani, anche nel nostro Paese (Istat, 2013) ha alimentato l’attenzione di ricercatori, politici e decisori allo scopo di individuare misure, strategie, indirizzi efficaci volti a ridurre il fenomeno ma soprattutto a creare contesti formativi e di cura educativa dove i giovani possano recuperare il desiderio e la motivazione a studiare, a rientrare in formazione, per vivere appieno da cittadini attivi e quindi anche da consumatori culturali. Un risultato significativo in tal senso sembra l’approdo, anche nel quadro di una legislazione sensibile (cfr. Disegno di Legge Iori) a nuove figure educative, più responsive alle esigenze che maturano all’interno delle nostre società, come ad es. il “pedagogista del benessere” (Iavarone, 2017) quale professionista capace di intercettare talune emergenze e di intervenire nei processi di formazione delle generazioni attuali che manifestano caratteristiche, bisogni e forme di disagio completamente diverse dalle precedenti. In particolare, il “pedagogista del benessere” individua il suo campo di azione nella promozione di competenze autoprogettuali e critiche con la finalità di perseguire un progetto della soggettività, umanisticamente inteso, che miri a coltivare aspetti ritenuti indispensabili per la piena realizzazione di sé e quindi per un autentico benessere personale e sociale. Sulla base dei dati presi in considerazione e delle implicazioni individuate, l’analisi spinge ad ipotizzare una sempre maggiore attenzione verso progetti, azioni, interventi di sviluppo professionale svolti a favore di pubblici deboli relativamente ai livelli di istruzione e formazione e particolarmente resistenti al consumo culturale.

EDUCARE AL BENESSERE PER MIGLIORARE IL CONSUMO CULTURALE

Maria Luisa Iavarone
2018-01-01

Abstract

L’ISTAT nel rapporto Noi Italia, 2016 ha nuovamente rivolto l’attenzione al tema dei “consumi culturali” (libri, cinema, teatro, musei, mostre; ecc.) evidenziando come gli italiani destinino a questi soltanto il 6,5% del totale delle loro spese. Questo dato rimette in discussione quello che sembrava un trend oramai stabilmente in crescita negli ultimi anni (Ocse, 2011) ovvero che il benessere fosse legato in misura significativa ad aspetti immateriali quali la fruizione di arte, di cultura e comunque di esperienze di benessere non necessariamente riconducibili ad aspetti materiali dell’esistenza (Iavarone, 2016). E’ evidente, tuttavia, che il consumo culturale varia da contesto a contesto, da epoca ad epoca sotto la spinta di dinamiche complesse attraverso le quali una società costruisce e rafforza la propria identità ed i propri sistemi di trasmissione culturale. Questo ultimo aspetto, in particolare, va attentamente riferito ai sistemi educativi, soprattutto alla formazione dei giovani e degli adulti, quale bacino di consumo di maggiore elezione. E’ evidente che il consumo culturale correla con migliori livelli di istruzione: una recente indagine (Shaw, 2016) evidenzia, ad esempio, come individui appartenenti a classi economicamente svantaggiate, con bassi livelli di scolarità e nessuna propensione al consumo culturale risultino, di contro, i maggiori acquirenti di i-phone di ultima generazione. Da qui l'esigenza di individuare un paradigma interpretativo attraverso il quale riconcettualizzare la dialettica educazione-cultura-sviluppo-consumo. Il presente contributo si propone di interpretare, attraverso un’analisi interdisciplinare che incrocia dati economici, sociali, demografici ed ambientali, la correlazione tra bassi livelli di istruzione e formazione, scarsa attività e bassissima propensione al consumo culturale. In particolare viene rivolta attenzione al fenomeno dei NEET, giovani compresi tra 16 e 24 anni non impegnati nello studio, né nel lavoro, che hanno smesso di cercare un’occupazione e con nessuna motivazione al rientro in formazione eppure fortemente tecnologizzati, anche ai livelli di istruzione più bassi. L’incidenza crescente di questi giovani, anche nel nostro Paese (Istat, 2013) ha alimentato l’attenzione di ricercatori, politici e decisori allo scopo di individuare misure, strategie, indirizzi efficaci volti a ridurre il fenomeno ma soprattutto a creare contesti formativi e di cura educativa dove i giovani possano recuperare il desiderio e la motivazione a studiare, a rientrare in formazione, per vivere appieno da cittadini attivi e quindi anche da consumatori culturali. Un risultato significativo in tal senso sembra l’approdo, anche nel quadro di una legislazione sensibile (cfr. Disegno di Legge Iori) a nuove figure educative, più responsive alle esigenze che maturano all’interno delle nostre società, come ad es. il “pedagogista del benessere” (Iavarone, 2017) quale professionista capace di intercettare talune emergenze e di intervenire nei processi di formazione delle generazioni attuali che manifestano caratteristiche, bisogni e forme di disagio completamente diverse dalle precedenti. In particolare, il “pedagogista del benessere” individua il suo campo di azione nella promozione di competenze autoprogettuali e critiche con la finalità di perseguire un progetto della soggettività, umanisticamente inteso, che miri a coltivare aspetti ritenuti indispensabili per la piena realizzazione di sé e quindi per un autentico benessere personale e sociale. Sulla base dei dati presi in considerazione e delle implicazioni individuate, l’analisi spinge ad ipotizzare una sempre maggiore attenzione verso progetti, azioni, interventi di sviluppo professionale svolti a favore di pubblici deboli relativamente ai livelli di istruzione e formazione e particolarmente resistenti al consumo culturale.
2018
978-88-6453-751-1
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11367/70333
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