Gli storici più attenti, da oltre di un secolo a questa parte, non hanno mancato di notare come la necessità di evolvere dai tentativi di riforma alla Rivoluzione affondi le sue radici nel fallimento della riforma Maupeou (1771-1774). Molti concordano sul fatto che se il nuovo assetto istituzionale imposto dal cancelliere e guardasigilli del governo regio di Francia sotto il re Luigi XV fosse durato stabilmente, anziché solo i tre anni circa in cui restò in vigore, la Rivoluzione molto probabilmente non avrebbe avuto luogo. Le resistenze e l’opposizione alla réforme furono gigantesche fin dall’inizio. Di fronte all’azione, decisa e radicale, di Maupeou i robins gridarono immediatamente al colpo di Stato. Si denunciava l’annullamento delle inveterate strutture costituzionali e si metteva sotto accusa lo stato eccezionale, che il cancelliere aveva illegittimamente deciso, con il conseguente sovvertimento degli equilibri politico-istituzionali. In base alla prospettiva storiografico-ideologica che si sceglie di adottare, la riforma Maupeou è considerata un coup d’État o, in una versione più soft, un coup de majesté. Di là dalle differenze tra le due tipologie, non vi è dubbio che, in entrambi i casi, essa s’inquadra nel genere concettuale dello “stato di eccezione”. Non può sfuggire, tuttavia, che la vicenda configura uno stato di eccezione particolare, in quanto decretato dal potere politico propriamente detto per annientare un altro potere, altrettanto politico, ma occulto: la giurisdizione della magistratura . Ciò significa, in sintesi, che in questo caso lo stato di eccezione è servito a – ed è stato concepito per – ripristinare uno status quo che si riteneva essere ordinario e normale e che è stato progressivamente turbato o incrinato da un contropotere subdolo che secundum legem non ne avrebbe avuto la legittimità, ma che è riuscito, attraverso strumenti tecnici non suscettibili di controllo, a imporre la sua supremazia di fatto sul potere costituito. Lo stato di eccezione fu quindi concepito dal cancelliere Maupeou come lo strumento per «frapper fort» la corporazione dei magistrati e tentare in tal modo di annientare il loro peso sulle decisioni politiche, instaurando così uno Stato retto da una sovranità governamentale effettiva, senza più bisogno di mediazioni patriarcali da parte di un ristretto nucleo di sapientes che si ponevano come depositari di un sapere incontrovertibile e avulso da ogni responsabilità. In questo senso, si può dire che lo stato di eccezione fu concepito da Maupeou, e dall’establishment governamentale che lo spalleggiava, come uno strumento destinato non a sospendere l’efficacia del diritto (positivo o, come aveva scritto qualche anno prima Rousseau nel sottotitolo del Contrat social, «politico») quanto piuttosto a renderlo pienamente efficace. L’eccezione era un passaggio stretto e obbligato per instaurare la normalità, quella normalità vagheggiata da molti sovrani e da molti uomini di Stato, ma che neppure Luigi XIV era riuscito a raggiungere pienamente e soprattutto a far durare oltre il suo regno. L’esperimento parve centrare l’obiettivo. Ma in realtà si risolse, dopo soli tre anni, nell’ennesimo échec. Il fallimento della riforma Maupeou fu la vera origine della Rivoluzione. Il 1789, infatti, fu la grande e definitiva palingenesi che il potere politico sovrano realizzò proprio contro il ritorno – a partire dal 1774 – della magistratura allo strapotere di sempre. Da questo caso di specie il presente saggio parte per proporre una diversa lettura della categoria concettuale dello stato d'eccezione nell'ambito delle scienze sociali con un'innovazione consistente in una diversa definizione del fenomeno: lo stato d'eccezione inteso come antidoto ai poteri occulti e quindi particolarmente opportuno in situazioni di blocco socio-costituzionale come quella italiana.

Stati d'eccezione e giurisdizione politica. Dal colpo di Stato Maupeou alla Rivoluzione francese

DI DONATO, Francesco
2016-01-01

Abstract

Gli storici più attenti, da oltre di un secolo a questa parte, non hanno mancato di notare come la necessità di evolvere dai tentativi di riforma alla Rivoluzione affondi le sue radici nel fallimento della riforma Maupeou (1771-1774). Molti concordano sul fatto che se il nuovo assetto istituzionale imposto dal cancelliere e guardasigilli del governo regio di Francia sotto il re Luigi XV fosse durato stabilmente, anziché solo i tre anni circa in cui restò in vigore, la Rivoluzione molto probabilmente non avrebbe avuto luogo. Le resistenze e l’opposizione alla réforme furono gigantesche fin dall’inizio. Di fronte all’azione, decisa e radicale, di Maupeou i robins gridarono immediatamente al colpo di Stato. Si denunciava l’annullamento delle inveterate strutture costituzionali e si metteva sotto accusa lo stato eccezionale, che il cancelliere aveva illegittimamente deciso, con il conseguente sovvertimento degli equilibri politico-istituzionali. In base alla prospettiva storiografico-ideologica che si sceglie di adottare, la riforma Maupeou è considerata un coup d’État o, in una versione più soft, un coup de majesté. Di là dalle differenze tra le due tipologie, non vi è dubbio che, in entrambi i casi, essa s’inquadra nel genere concettuale dello “stato di eccezione”. Non può sfuggire, tuttavia, che la vicenda configura uno stato di eccezione particolare, in quanto decretato dal potere politico propriamente detto per annientare un altro potere, altrettanto politico, ma occulto: la giurisdizione della magistratura . Ciò significa, in sintesi, che in questo caso lo stato di eccezione è servito a – ed è stato concepito per – ripristinare uno status quo che si riteneva essere ordinario e normale e che è stato progressivamente turbato o incrinato da un contropotere subdolo che secundum legem non ne avrebbe avuto la legittimità, ma che è riuscito, attraverso strumenti tecnici non suscettibili di controllo, a imporre la sua supremazia di fatto sul potere costituito. Lo stato di eccezione fu quindi concepito dal cancelliere Maupeou come lo strumento per «frapper fort» la corporazione dei magistrati e tentare in tal modo di annientare il loro peso sulle decisioni politiche, instaurando così uno Stato retto da una sovranità governamentale effettiva, senza più bisogno di mediazioni patriarcali da parte di un ristretto nucleo di sapientes che si ponevano come depositari di un sapere incontrovertibile e avulso da ogni responsabilità. In questo senso, si può dire che lo stato di eccezione fu concepito da Maupeou, e dall’establishment governamentale che lo spalleggiava, come uno strumento destinato non a sospendere l’efficacia del diritto (positivo o, come aveva scritto qualche anno prima Rousseau nel sottotitolo del Contrat social, «politico») quanto piuttosto a renderlo pienamente efficace. L’eccezione era un passaggio stretto e obbligato per instaurare la normalità, quella normalità vagheggiata da molti sovrani e da molti uomini di Stato, ma che neppure Luigi XIV era riuscito a raggiungere pienamente e soprattutto a far durare oltre il suo regno. L’esperimento parve centrare l’obiettivo. Ma in realtà si risolse, dopo soli tre anni, nell’ennesimo échec. Il fallimento della riforma Maupeou fu la vera origine della Rivoluzione. Il 1789, infatti, fu la grande e definitiva palingenesi che il potere politico sovrano realizzò proprio contro il ritorno – a partire dal 1774 – della magistratura allo strapotere di sempre. Da questo caso di specie il presente saggio parte per proporre una diversa lettura della categoria concettuale dello stato d'eccezione nell'ambito delle scienze sociali con un'innovazione consistente in una diversa definizione del fenomeno: lo stato d'eccezione inteso come antidoto ai poteri occulti e quindi particolarmente opportuno in situazioni di blocco socio-costituzionale come quella italiana.
2016
978-88-498-4737-6
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11367/63679
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