Il delitto di abuso d’ufficio è previsto e disciplinato dall’art. 323 c.p., inserito nel capo I, titolo II, libro II del codice penale Rocco, capo relativo ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (capo I, artt. 314 – 335 bis c.p.), a sua volta incluso nel complessivo sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione, l’intero titolo II, che comprende, oltre alle già citate disposizioni, quelle concernenti i delitti dei privati contro la p.a. (capo II, artt. 336 – 356 c.p.) ed una serie di disposizioni comuni ai suddetti capi, che si preoccupano di definire, anche ai fini di tutte quelle fattispecie, comunque rintracciabili nel complesso della legislazione penale, caratterizzate dalla presenza di un particolare soggetto qualificato, in veste attiva o passiva (ai fini della descrizione normativa del fatto nei suoi elementi essenziali o dell’applicabilità di una circostanza aggravante), le nozioni di pubblico ufficiale (art. 357 c.p.), di incaricato di pubblico servizio (art. 358 c.p.), di persona esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 c.p.). La norma in esame è, nella sua attuale formulazione, il risultato di una stratificata e travagliata vicenda legislativa che muove dalla generale esigenza di ristrutturazione dell’intero sistema dei delitti contro la p.a. (riorganizzazione, peraltro, attuata con notevole ritardo dal legislatore repubblicano), dato l’irrimediabile “rigetto”, da parte del nuovo “organismo” di riferimento, di un corpo oramai avulso, ideato e concretato in norme in periodo di congerie politica e ideologica assolutamente incompatibile con l’attuale assetto istituzionale; esigenza tradottasi nella riforma attuata con la l. 26 aprile 1990, n.86, con cui venivano modificate numerose disposizioni relative alla classe dei delitti contro la P.A., riforma che non era riuscita, tuttavia, proprio a proposito dell’abuso d’ufficio, a colmare da un lato le incertezze interpretative e le oscillazioni applicative derivanti da una carente descrizione normativa del fatto, assolutamente in deficit rispetto agli oramai imperativi, ma già da tempo segnalati come cogenti, canoni di precisione e determinatezza, dall’altro a tradurre in termini giuridici, attraverso una selettiva individuazione e caratterizzazione degli elementi costituenti la fattispecie in esame, quegli obiettivi di politica criminale, posti in generale a base della riforma del titolo II, e tesi, nell’ottica di un mutamento di vedute circa l’assetto della P.A. nel quadro costituzionale di riferimento, ad un completo riassetto dei rapporti tra autorità giudiziaria ed autorità amministrativa, nel senso soprattutto del restringimento dell’area di influenza e di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa, in particolare quando caratterizzata da scelte discrezionali; rendendo dunque necessario una successiva attività novellatrice da parte del legislatore, a distanza di pochi anni dalla riforma, coll’intento di riparare all’infruttuoso tentativo del ‘ 90. A seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 l. 16 luglio 1997, n. 234, l’art. 323 c.p. dispone oggi che “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”. Uno sguardo d’insieme della fattispecie, superficiale ma non privo di possibilità di rilievi, consente immediatamente di riconoscere lo sforzo effettuato dal legislatore nel cercare di adattare la riformata figura delittuosa ai canoni costituzionali che dovrebbero governare le attività di corretta individuazione, selezione e descrizione delle condotte meritevoli di sanzione penale, con particolare riferimento ai principi di determinatezza, per ciò che attiene il profilo formale, quello di offensività sotto l’aspetto sostanziale. Obiettivo perseguito attraverso una tecnica di redazione minuziosa e dettagliata, ricca di elementi che contribuiscono alla specificazione delle condotte punibili sia sotto il profilo oggettivo, utilizzando il modello c.d. a “forma vincolata”, che descrive con dovizia di particolari condotta, presupposti ed evento materiale, sia sotto il versante soggettivo, con l’indicazione di una specifica forma di dolo, quello intenzionale, necessario ai fini della tipicità. Ovviamente la scelta del materiale normativo risulta intimamente connesso con l’intento di inverare quegli scopi di politica criminale che sono stati alla base delle successive riforme, in particolare quello di dotare lo statuto penale della p.a. di un soddisfacente grado di aderenza rispetto ai mutamenti di orizzonte della stessa funzione amministrativa, delle relazioni intercorrenti tra i vari organi e poteri pubblici attraverso cui si esprimono le modalità di esercizio delle principali funzioni di un moderno stato sociale, dei rapporti tra la pubblica amministrazione ed i singoli con cui essa viene in contatto. Una analisi accorta, quanto meno da un punto di vista metodologico, del delitto in esame non può prescindere da almeno tre canali di approfondimento: è indiscutibile , in primis, il valore di una ricognizione, al limite anche solo didascalica, dei precedenti storici, sia a livello di figure criminose più o meno sovrapponibili all’attuale abuso d’ufficio, sia dei precedenti sistemi normativi in cui tali reati si inserivano, ai fini di una ricostruzione che tenga conto degli sviluppi dottrinari e giurisprudenziali in materia, ed i cui attuali risultati si pongono ora in linea di continuità e sviluppo ora in linea di superamento o contraddizione rispetto a precedenti elaborazioni, risultando comunque debitori di tale eredità storica e di tale humus di cultura ed esperienza. E se per approfondire l’indagine di una qualunque figura delittuosa tale metodica risulta sempre indicata, nello specifico caso dell’abuso d’ufficio tale particolare esigenza appare amplificata dalla circostanza del susseguirsi di due modifiche legislative realizzate nel solo periodo di vigenza del codice attualmente in vigore. In secondo luogo risulta inevitabile una dettagliata analisi della fattispecie nella sua attuale formulazione, sia attraverso uno “svisceramento” di ogni sua particella costitutiva (un approccio di tipo “modulare”), sia attraverso una disamina che tenga conto del significato complessivo e delle interazioni che conseguono dall’incontro dei singoli elementi nella struttura complessiva dell’illecito; senza trascurare, allargando l’orizzonte di riferimento, né il profilo sistematico, per l’ovvia necessità di inserire ogni fattispecie in un preciso contesto normativo, contesto che può evidentemente condizionare in maniera pregnante l’analisi ad oggetto ed il relativo risultato elaborativo; né, nell’ottica di una prospettiva teleologica, quale sia il significato funzionale (intimamente connesso con quello dogmatico) dei singoli elementi costituitivi e della complessiva ipotesi delittuosa esaminata, e dunque quali siano gli obiettivi di politica criminale raggiunti o, eventualmente, ancora da raggiungere de iure condendo. Il terzo ed ultimo profilo attiene alle necessarie interrelazioni che, postulato un ordinamento giuridico improntato al canone dell’unità e della non contraddittorietà, secondo la sua tendenziale, o addirittura ontologica logicità, vengono a stabilirsi tra i vari settori dell’ordinamento stesso, quelli del diritto penale e del diritto amministrativo in particolare, e che induce ad approfondire quegli aspetti, derivanti dalla dottrina amministrativistica, che le figure delittuose, implicitamente od esplicitamente, richiamano e che possono risultare utili per effettuarne una corretta esegesi. In ultima analisi è dalla stessa concezione di Pubblica Amministrazione e dallo sviluppo che questa ha ricevuto, soprattutto negli ultimi tre lustri (in realtà andrebbe analizzato il mutevole susseguirsi delle varie configurazioni che la Pubblica Amministrazione ha subito a partire fin dalla sua nascita nel contesto liberal-ottocentesco) che possono ricavarsi informazioni utili per l’interprete e lo studioso di diritto penale, soprattutto se oggetto del cimento di analisi è rappresentato proprio da quella fattispecie, l’abuso d’ufficio, che nella maniera più diretta (almeno a partire dalla riforma del ’90) è in grado di influire sull’esercizio delle attività in cui si sostanzia l’amministrazione pubblica, attraverso il sindacato ed il controllo sugli atti che di quella attività rappresentano la concreta attuazione e che rappresentano il presupposto normativo delle condotte abusive prese in considerazione dalla norma penale.

Profili del delitto di abuso d'ufficio e tipicità della condotta

RIPPA, FABRIZIO
2009-01-01

Abstract

Il delitto di abuso d’ufficio è previsto e disciplinato dall’art. 323 c.p., inserito nel capo I, titolo II, libro II del codice penale Rocco, capo relativo ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (capo I, artt. 314 – 335 bis c.p.), a sua volta incluso nel complessivo sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione, l’intero titolo II, che comprende, oltre alle già citate disposizioni, quelle concernenti i delitti dei privati contro la p.a. (capo II, artt. 336 – 356 c.p.) ed una serie di disposizioni comuni ai suddetti capi, che si preoccupano di definire, anche ai fini di tutte quelle fattispecie, comunque rintracciabili nel complesso della legislazione penale, caratterizzate dalla presenza di un particolare soggetto qualificato, in veste attiva o passiva (ai fini della descrizione normativa del fatto nei suoi elementi essenziali o dell’applicabilità di una circostanza aggravante), le nozioni di pubblico ufficiale (art. 357 c.p.), di incaricato di pubblico servizio (art. 358 c.p.), di persona esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 c.p.). La norma in esame è, nella sua attuale formulazione, il risultato di una stratificata e travagliata vicenda legislativa che muove dalla generale esigenza di ristrutturazione dell’intero sistema dei delitti contro la p.a. (riorganizzazione, peraltro, attuata con notevole ritardo dal legislatore repubblicano), dato l’irrimediabile “rigetto”, da parte del nuovo “organismo” di riferimento, di un corpo oramai avulso, ideato e concretato in norme in periodo di congerie politica e ideologica assolutamente incompatibile con l’attuale assetto istituzionale; esigenza tradottasi nella riforma attuata con la l. 26 aprile 1990, n.86, con cui venivano modificate numerose disposizioni relative alla classe dei delitti contro la P.A., riforma che non era riuscita, tuttavia, proprio a proposito dell’abuso d’ufficio, a colmare da un lato le incertezze interpretative e le oscillazioni applicative derivanti da una carente descrizione normativa del fatto, assolutamente in deficit rispetto agli oramai imperativi, ma già da tempo segnalati come cogenti, canoni di precisione e determinatezza, dall’altro a tradurre in termini giuridici, attraverso una selettiva individuazione e caratterizzazione degli elementi costituenti la fattispecie in esame, quegli obiettivi di politica criminale, posti in generale a base della riforma del titolo II, e tesi, nell’ottica di un mutamento di vedute circa l’assetto della P.A. nel quadro costituzionale di riferimento, ad un completo riassetto dei rapporti tra autorità giudiziaria ed autorità amministrativa, nel senso soprattutto del restringimento dell’area di influenza e di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa, in particolare quando caratterizzata da scelte discrezionali; rendendo dunque necessario una successiva attività novellatrice da parte del legislatore, a distanza di pochi anni dalla riforma, coll’intento di riparare all’infruttuoso tentativo del ‘ 90. A seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 l. 16 luglio 1997, n. 234, l’art. 323 c.p. dispone oggi che “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”. Uno sguardo d’insieme della fattispecie, superficiale ma non privo di possibilità di rilievi, consente immediatamente di riconoscere lo sforzo effettuato dal legislatore nel cercare di adattare la riformata figura delittuosa ai canoni costituzionali che dovrebbero governare le attività di corretta individuazione, selezione e descrizione delle condotte meritevoli di sanzione penale, con particolare riferimento ai principi di determinatezza, per ciò che attiene il profilo formale, quello di offensività sotto l’aspetto sostanziale. Obiettivo perseguito attraverso una tecnica di redazione minuziosa e dettagliata, ricca di elementi che contribuiscono alla specificazione delle condotte punibili sia sotto il profilo oggettivo, utilizzando il modello c.d. a “forma vincolata”, che descrive con dovizia di particolari condotta, presupposti ed evento materiale, sia sotto il versante soggettivo, con l’indicazione di una specifica forma di dolo, quello intenzionale, necessario ai fini della tipicità. Ovviamente la scelta del materiale normativo risulta intimamente connesso con l’intento di inverare quegli scopi di politica criminale che sono stati alla base delle successive riforme, in particolare quello di dotare lo statuto penale della p.a. di un soddisfacente grado di aderenza rispetto ai mutamenti di orizzonte della stessa funzione amministrativa, delle relazioni intercorrenti tra i vari organi e poteri pubblici attraverso cui si esprimono le modalità di esercizio delle principali funzioni di un moderno stato sociale, dei rapporti tra la pubblica amministrazione ed i singoli con cui essa viene in contatto. Una analisi accorta, quanto meno da un punto di vista metodologico, del delitto in esame non può prescindere da almeno tre canali di approfondimento: è indiscutibile , in primis, il valore di una ricognizione, al limite anche solo didascalica, dei precedenti storici, sia a livello di figure criminose più o meno sovrapponibili all’attuale abuso d’ufficio, sia dei precedenti sistemi normativi in cui tali reati si inserivano, ai fini di una ricostruzione che tenga conto degli sviluppi dottrinari e giurisprudenziali in materia, ed i cui attuali risultati si pongono ora in linea di continuità e sviluppo ora in linea di superamento o contraddizione rispetto a precedenti elaborazioni, risultando comunque debitori di tale eredità storica e di tale humus di cultura ed esperienza. E se per approfondire l’indagine di una qualunque figura delittuosa tale metodica risulta sempre indicata, nello specifico caso dell’abuso d’ufficio tale particolare esigenza appare amplificata dalla circostanza del susseguirsi di due modifiche legislative realizzate nel solo periodo di vigenza del codice attualmente in vigore. In secondo luogo risulta inevitabile una dettagliata analisi della fattispecie nella sua attuale formulazione, sia attraverso uno “svisceramento” di ogni sua particella costitutiva (un approccio di tipo “modulare”), sia attraverso una disamina che tenga conto del significato complessivo e delle interazioni che conseguono dall’incontro dei singoli elementi nella struttura complessiva dell’illecito; senza trascurare, allargando l’orizzonte di riferimento, né il profilo sistematico, per l’ovvia necessità di inserire ogni fattispecie in un preciso contesto normativo, contesto che può evidentemente condizionare in maniera pregnante l’analisi ad oggetto ed il relativo risultato elaborativo; né, nell’ottica di una prospettiva teleologica, quale sia il significato funzionale (intimamente connesso con quello dogmatico) dei singoli elementi costituitivi e della complessiva ipotesi delittuosa esaminata, e dunque quali siano gli obiettivi di politica criminale raggiunti o, eventualmente, ancora da raggiungere de iure condendo. Il terzo ed ultimo profilo attiene alle necessarie interrelazioni che, postulato un ordinamento giuridico improntato al canone dell’unità e della non contraddittorietà, secondo la sua tendenziale, o addirittura ontologica logicità, vengono a stabilirsi tra i vari settori dell’ordinamento stesso, quelli del diritto penale e del diritto amministrativo in particolare, e che induce ad approfondire quegli aspetti, derivanti dalla dottrina amministrativistica, che le figure delittuose, implicitamente od esplicitamente, richiamano e che possono risultare utili per effettuarne una corretta esegesi. In ultima analisi è dalla stessa concezione di Pubblica Amministrazione e dallo sviluppo che questa ha ricevuto, soprattutto negli ultimi tre lustri (in realtà andrebbe analizzato il mutevole susseguirsi delle varie configurazioni che la Pubblica Amministrazione ha subito a partire fin dalla sua nascita nel contesto liberal-ottocentesco) che possono ricavarsi informazioni utili per l’interprete e lo studioso di diritto penale, soprattutto se oggetto del cimento di analisi è rappresentato proprio da quella fattispecie, l’abuso d’ufficio, che nella maniera più diretta (almeno a partire dalla riforma del ’90) è in grado di influire sull’esercizio delle attività in cui si sostanzia l’amministrazione pubblica, attraverso il sindacato ed il controllo sugli atti che di quella attività rappresentano la concreta attuazione e che rappresentano il presupposto normativo delle condotte abusive prese in considerazione dalla norma penale.
2009
978-88-7431-440-9
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