Nella moderna dottrina penalistica l’antigiuridicità ha conquistato da tempo un ruolo autonomo, di “pari dignità dogmatica” rispetto agli elementi della tipicità e della colpevolezza. Anche gli studiosi che accolgono la cd. teoria degli elementi negativi del fatto non esitano a riconoscere all’«assenza di cause di giustificazione» un ruolo fondamentale all’interno della struttura del reato, sia pure quale «elemento che deve mancare» affinché il fatto sia tipico . Appare dunque superato, anche sul piano terminologico, il riferimento all’antigiuridicità concepita non come uno degli elementi del reato, bensì quale sintesi degli elementi necessari per l’esistenza del reato – l’in sé del reato, secondo la fortunata formula di Arturo Rocco – e quindi la stessa distinzione tra una antigiuridicità “integrale” o “soggettiva”, intesa come antigiuridicità “vera e propria”, e una antigiuridicità “oggettiva” ha perso da tempo gran parte del suo significato . L’orientamento largamente maggioritario della dottrina non ha più remore nel riconoscere che l’antigiuridicità è “oggettiva” nel senso che non concerne le condizioni individuali dell’autore del fatto , e spesso identifica antigiuridicità oggettiva e antigiuridicità “generica”, intesa quest’ultima nel senso dell’omogeneità degli effetti che essa produce nell’ambito dell’intero ordinamento giuridico . Contro il «dogma» dell’antigiuridicità generica, e cioè della “antigiuridicità rispetto all’intero ordinamento”, qualche perplessità è stata sollevata, sia in passato sia in epoca recente , soprattutto configurando una stretta e inscindibile interdipendenza tra tale nozione di antigiuridicità e la concezione sanzionatoria del diritto penale . Tuttavia, le diverse impostazioni del problema dell’antigiuridicità hanno risentito del limite generale di cui hanno sofferto, e in parte soffrono ancora, gli studi giuridici, «orientati per lungo tempo più verso l’analisi della struttura degli ordinamenti giuridici che non verso l’analisi della loro funzione» . Se invece si seguono i metodi d’indagine suggeriti dalla teoria funzionalistica del diritto , che si aggiungono senza contrapporsi a quelli della teoria strutturalistica, il problema dell’antigiuridicità e della posizione dei vari istituti del diritto penale nell’ambito della teoria generale del reato può pervenire ad esiti più soddisfacenti e conformi alla realtà. Tali considerazioni valgono in modo particolare per l’istituto dello stato di necessità, la cui collocazione sistematica appare ancora oggi incerta, affetta da un pendolarismo cronico che la colloca ora nell’ambito dell’antigiuridicità, ora in quello della colpevolezza , senza tuttavia che tali peregrinazioni siano il risultato di una chiara e conseguente attenzione ai profili funzionali dell’esimente. Sotto questo profilo, la ritenuta «impossibilità di una configurazione unitaria delle ipotesi di non punibilità che si ricollegano a uno “stato di necessità”» appare come una feconda presa d’atto del fallimento dell’approccio “modulare” alla teoria del reato, un approccio secondo il quale compito della dogmatica dovrebbe essere quello di scomporre il comportamento delittuoso in una miriade di singoli elementi, variamente classificati e raggruppati, per inserirli nei vari livelli della struttura del reato, spendendo molte energie per stabilire l’esatta collocazione degli elementi stessi nell’ambito della sistematica del reato . Applicare la teoria funzionalistica al diritto penale, invece, vuol dire, come è stato lucidamente affermato, individuare nel diritto penale «la forma nella quale obiettivi di politica criminale vengono tradotti in termini giuridicamente validi» . Beninteso, a essere messo in discussione non è l’approccio analitico allo studio del reato, non fosse altro per il suo incontestabile valore garantistico, ma le esasperazioni di un’impostazione dommatica che guarda esclusivamente all’aspetto strutturale delle categorie e degli istituti, senza preoccuparsi delle funzioni che tali istituti sono chiamati ad assolvere nel concreto funzionamento del sistema penale. Non è un caso, infatti, che proprio nell’ambito di un’applicazione della teoria funzionalistica al diritto penale si sia autorevolmente – e polemicamente – osservato che «la storia della teoria del reato negli ultimi decenni può essere configurata come una peregrinazione degli elementi del reato da un piano all’altro del sistema» . Pertanto, nell’ambito della costruzione di un sistema teleologico del diritto penale, «volto a recuperare aspetti contenutistici di valore in contrapposizione al formalismo positivistico» , a ciascuna delle tradizionali categorie del reato vengono assegnati ben precisi compiti di politica criminale: «Le singole categorie del reato – tipicità, antigiuridicità, colpevolezza – vanno fin da principio considerate, sviluppate e sistematizzate dall’angolo visuale della loro funzione politico-criminale» . In tale prospettiva, l’antigiuridicità diventa «l’ambito delle soluzioni dei conflitti sociali, è il campo sul quale collidono i contrastanti interessi individuali o le esigenze sociali con le pretese del singolo» . Alla base delle cause di giustificazione in generale c’è pur sempre il principio di non contraddizione dell’ordinamento. In questo senso sono significative le posizioni dottrinali che, non da oggi, escludono la sussistenza dell’illiceità penale qualora il fatto “tipico” sia al tempo stesso oggetto di una norma di facoltà e di divieto situate in qualsiasi luogo dell’ordinamento giuridico . Il fondamento delle cause di giustificazione consiste infatti nella necessità di risolvere un conflitto di norme che, in realtà, è solo apparente in virtù del principio di unità dell’ordinamento giuridico . Se dunque, l’antigiuridicità “generica” rappresenta, sul piano strutturale, la contrarietà del fatto rispetto all’intero ordinamento giuridico, sotto il profilo funzionale essa ha il precipuo scopo di offrire una soluzione ai conflitti d’interesse attraverso il bilanciamento dei beni giuridici e, quindi, risolvendo le antinomie dell’ordinamento . Per questo motivo, la lettura “funzionale” e “teleologica” dell’esimente dello stato di necessità – che, come si detto, è sicuramente uno degli istituti di parte generale che più ha sofferto e soffre ancora del “pendolarismo” delle categorie dommatiche – consente di superare alcuni fraintendimenti sul ruolo dell’esimente all’interno della struttura dell’illecito, e di individuare i criteri per una corretta riforma dell’istituto de iure condendo. L’analisi funzionale dell’istituto, invero, consente di distinguere, anche ai fini dommatici, le ipotesi nelle quali il bilanciamento degli interessi si risolve nell’assenza di disvalore di evento e di azione dai casi in cui il rapporto di proporzione tra i beni in conflitto denoti una superiorità, nell’ottica dell’ordinamento, del bene sacrificato. Appare evidente che solo nel primo caso la condotta dell’agente può dirsi conforme alle esigenze dell’ordinamento giuridico, mentre tutte le volte nelle quali il bilanciamento degli interessi in gioco offre un esito diverso, la non punibilità del fatto tipico può discendere solo da una connotazione normativa di non esigibilità del comportamento conforme alle attese dell’ordinamento. Ne deriva, com’è stato osservato, che nelle ipotesi di stato di necessità «tutte le volte in cui il rapporto di proporzione fra i beni non risulti manifestamente sbilanciato a favore del bene che l’azione necessitata tende a salvaguardare, è la logica delle scusanti – fondata essenzialmente sulla non esigibilità del comando – ad apparire decisiva per l’esclusione della punibilità» . Pertanto, lo stato di necessità, a seconda della funzione cui assolve la norma nel caso specifico, può essere inquadrato, alternativamente, nell’ambito delle cause di esclusione dell’illiceità ovvero nell’ambito delle scusanti la cui funzione, com’è noto, è quella di escludere l’esigibilità del comportamento conforme alle esigenze dell’ordinamento . Nel primo caso, l’art. 54 c.p. si identifica in una norma di condotta che entra in conflitto con le singole norme incriminatici, concorrendo con le medesime nella determinazione di ciò che il consociato deve, non deve o può fare. Viceversa, nel secondo caso, la stessa norma si atteggia come norma di valutazione diretta al giudice e idonea ad escludere la colpevolezza dell’agente . Da questo punto di vista, la disciplina normativa dei limiti soggettivi all’applicabilità dell’art. 54 c.p. e, in particolare, delle ipotesi di esclusione dello stato di necessità nei confronti dei soggetti che hanno un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo, può rappresentare un importante terreno di verifica delle costruzioni dommatiche e politico-criminali dell’esimente in esame. In primo luogo, la disposizione, contro le tendenze dirette ad inserire l’esimente in parola nell’ambito delle scusanti tese ad escludere la colpevolezza “materiale”, conferma il carattere normativo della inesigibilità che, come si è visto, risulta il dato fondante dell’istituto nelle ipotesi in cui il rapporto di proporzione tra i beni in conflitto è a favore dell’interesse sacrificato. Invero, l’inapplicabilità dello stato di necessità ai soggetti nei confronti dei quali sia configurabile un obbligo giuridico di esporsi al pericolo può spiegarsi esclusivamente sulla base di una comparazione oggettiva degli interessi in gioco nella situazione concreta, tra i quali vi è indubbiamente l’interesse pubblico all’adempimento di doveri istituzionali che incombono su tali soggetti . Pertanto, il fondamento dell’esimente di cui all’art. 54 c.p., anche nell’ipotesi del secondo comma, è sempre da ricercarsi in un preventivo bilanciamento d’interessi, all’esito del quale l’ordinamento può valutare la sussistenza di una proporzione tra i beni in conflitto . D’altra parte, proprio la circostanza per la quale la funzione dell’esimente di cui all’art. 54 c.p. è quella di operare un (preventivo) bilanciamento d’interessi, si pone alla base dei progetti di riforma che tendono ad attenuare la rigidità dell’attuale disciplina, precisando che la scriminante non è applicabile a chi «essendo tenuto ad esporsi al pericolo, agisca per salvare un interesse proprio la cui superiorità non sia di particolare rilevanza» .

STATO DI NECESSITà E OBBLIGO DI ESPORSI AL PERICOLO - SPUNTI DOMMATICI E DI POLITICA CRIMINALE

RIPPA, FABRIZIO
2005-01-01

Abstract

Nella moderna dottrina penalistica l’antigiuridicità ha conquistato da tempo un ruolo autonomo, di “pari dignità dogmatica” rispetto agli elementi della tipicità e della colpevolezza. Anche gli studiosi che accolgono la cd. teoria degli elementi negativi del fatto non esitano a riconoscere all’«assenza di cause di giustificazione» un ruolo fondamentale all’interno della struttura del reato, sia pure quale «elemento che deve mancare» affinché il fatto sia tipico . Appare dunque superato, anche sul piano terminologico, il riferimento all’antigiuridicità concepita non come uno degli elementi del reato, bensì quale sintesi degli elementi necessari per l’esistenza del reato – l’in sé del reato, secondo la fortunata formula di Arturo Rocco – e quindi la stessa distinzione tra una antigiuridicità “integrale” o “soggettiva”, intesa come antigiuridicità “vera e propria”, e una antigiuridicità “oggettiva” ha perso da tempo gran parte del suo significato . L’orientamento largamente maggioritario della dottrina non ha più remore nel riconoscere che l’antigiuridicità è “oggettiva” nel senso che non concerne le condizioni individuali dell’autore del fatto , e spesso identifica antigiuridicità oggettiva e antigiuridicità “generica”, intesa quest’ultima nel senso dell’omogeneità degli effetti che essa produce nell’ambito dell’intero ordinamento giuridico . Contro il «dogma» dell’antigiuridicità generica, e cioè della “antigiuridicità rispetto all’intero ordinamento”, qualche perplessità è stata sollevata, sia in passato sia in epoca recente , soprattutto configurando una stretta e inscindibile interdipendenza tra tale nozione di antigiuridicità e la concezione sanzionatoria del diritto penale . Tuttavia, le diverse impostazioni del problema dell’antigiuridicità hanno risentito del limite generale di cui hanno sofferto, e in parte soffrono ancora, gli studi giuridici, «orientati per lungo tempo più verso l’analisi della struttura degli ordinamenti giuridici che non verso l’analisi della loro funzione» . Se invece si seguono i metodi d’indagine suggeriti dalla teoria funzionalistica del diritto , che si aggiungono senza contrapporsi a quelli della teoria strutturalistica, il problema dell’antigiuridicità e della posizione dei vari istituti del diritto penale nell’ambito della teoria generale del reato può pervenire ad esiti più soddisfacenti e conformi alla realtà. Tali considerazioni valgono in modo particolare per l’istituto dello stato di necessità, la cui collocazione sistematica appare ancora oggi incerta, affetta da un pendolarismo cronico che la colloca ora nell’ambito dell’antigiuridicità, ora in quello della colpevolezza , senza tuttavia che tali peregrinazioni siano il risultato di una chiara e conseguente attenzione ai profili funzionali dell’esimente. Sotto questo profilo, la ritenuta «impossibilità di una configurazione unitaria delle ipotesi di non punibilità che si ricollegano a uno “stato di necessità”» appare come una feconda presa d’atto del fallimento dell’approccio “modulare” alla teoria del reato, un approccio secondo il quale compito della dogmatica dovrebbe essere quello di scomporre il comportamento delittuoso in una miriade di singoli elementi, variamente classificati e raggruppati, per inserirli nei vari livelli della struttura del reato, spendendo molte energie per stabilire l’esatta collocazione degli elementi stessi nell’ambito della sistematica del reato . Applicare la teoria funzionalistica al diritto penale, invece, vuol dire, come è stato lucidamente affermato, individuare nel diritto penale «la forma nella quale obiettivi di politica criminale vengono tradotti in termini giuridicamente validi» . Beninteso, a essere messo in discussione non è l’approccio analitico allo studio del reato, non fosse altro per il suo incontestabile valore garantistico, ma le esasperazioni di un’impostazione dommatica che guarda esclusivamente all’aspetto strutturale delle categorie e degli istituti, senza preoccuparsi delle funzioni che tali istituti sono chiamati ad assolvere nel concreto funzionamento del sistema penale. Non è un caso, infatti, che proprio nell’ambito di un’applicazione della teoria funzionalistica al diritto penale si sia autorevolmente – e polemicamente – osservato che «la storia della teoria del reato negli ultimi decenni può essere configurata come una peregrinazione degli elementi del reato da un piano all’altro del sistema» . Pertanto, nell’ambito della costruzione di un sistema teleologico del diritto penale, «volto a recuperare aspetti contenutistici di valore in contrapposizione al formalismo positivistico» , a ciascuna delle tradizionali categorie del reato vengono assegnati ben precisi compiti di politica criminale: «Le singole categorie del reato – tipicità, antigiuridicità, colpevolezza – vanno fin da principio considerate, sviluppate e sistematizzate dall’angolo visuale della loro funzione politico-criminale» . In tale prospettiva, l’antigiuridicità diventa «l’ambito delle soluzioni dei conflitti sociali, è il campo sul quale collidono i contrastanti interessi individuali o le esigenze sociali con le pretese del singolo» . Alla base delle cause di giustificazione in generale c’è pur sempre il principio di non contraddizione dell’ordinamento. In questo senso sono significative le posizioni dottrinali che, non da oggi, escludono la sussistenza dell’illiceità penale qualora il fatto “tipico” sia al tempo stesso oggetto di una norma di facoltà e di divieto situate in qualsiasi luogo dell’ordinamento giuridico . Il fondamento delle cause di giustificazione consiste infatti nella necessità di risolvere un conflitto di norme che, in realtà, è solo apparente in virtù del principio di unità dell’ordinamento giuridico . Se dunque, l’antigiuridicità “generica” rappresenta, sul piano strutturale, la contrarietà del fatto rispetto all’intero ordinamento giuridico, sotto il profilo funzionale essa ha il precipuo scopo di offrire una soluzione ai conflitti d’interesse attraverso il bilanciamento dei beni giuridici e, quindi, risolvendo le antinomie dell’ordinamento . Per questo motivo, la lettura “funzionale” e “teleologica” dell’esimente dello stato di necessità – che, come si detto, è sicuramente uno degli istituti di parte generale che più ha sofferto e soffre ancora del “pendolarismo” delle categorie dommatiche – consente di superare alcuni fraintendimenti sul ruolo dell’esimente all’interno della struttura dell’illecito, e di individuare i criteri per una corretta riforma dell’istituto de iure condendo. L’analisi funzionale dell’istituto, invero, consente di distinguere, anche ai fini dommatici, le ipotesi nelle quali il bilanciamento degli interessi si risolve nell’assenza di disvalore di evento e di azione dai casi in cui il rapporto di proporzione tra i beni in conflitto denoti una superiorità, nell’ottica dell’ordinamento, del bene sacrificato. Appare evidente che solo nel primo caso la condotta dell’agente può dirsi conforme alle esigenze dell’ordinamento giuridico, mentre tutte le volte nelle quali il bilanciamento degli interessi in gioco offre un esito diverso, la non punibilità del fatto tipico può discendere solo da una connotazione normativa di non esigibilità del comportamento conforme alle attese dell’ordinamento. Ne deriva, com’è stato osservato, che nelle ipotesi di stato di necessità «tutte le volte in cui il rapporto di proporzione fra i beni non risulti manifestamente sbilanciato a favore del bene che l’azione necessitata tende a salvaguardare, è la logica delle scusanti – fondata essenzialmente sulla non esigibilità del comando – ad apparire decisiva per l’esclusione della punibilità» . Pertanto, lo stato di necessità, a seconda della funzione cui assolve la norma nel caso specifico, può essere inquadrato, alternativamente, nell’ambito delle cause di esclusione dell’illiceità ovvero nell’ambito delle scusanti la cui funzione, com’è noto, è quella di escludere l’esigibilità del comportamento conforme alle esigenze dell’ordinamento . Nel primo caso, l’art. 54 c.p. si identifica in una norma di condotta che entra in conflitto con le singole norme incriminatici, concorrendo con le medesime nella determinazione di ciò che il consociato deve, non deve o può fare. Viceversa, nel secondo caso, la stessa norma si atteggia come norma di valutazione diretta al giudice e idonea ad escludere la colpevolezza dell’agente . Da questo punto di vista, la disciplina normativa dei limiti soggettivi all’applicabilità dell’art. 54 c.p. e, in particolare, delle ipotesi di esclusione dello stato di necessità nei confronti dei soggetti che hanno un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo, può rappresentare un importante terreno di verifica delle costruzioni dommatiche e politico-criminali dell’esimente in esame. In primo luogo, la disposizione, contro le tendenze dirette ad inserire l’esimente in parola nell’ambito delle scusanti tese ad escludere la colpevolezza “materiale”, conferma il carattere normativo della inesigibilità che, come si è visto, risulta il dato fondante dell’istituto nelle ipotesi in cui il rapporto di proporzione tra i beni in conflitto è a favore dell’interesse sacrificato. Invero, l’inapplicabilità dello stato di necessità ai soggetti nei confronti dei quali sia configurabile un obbligo giuridico di esporsi al pericolo può spiegarsi esclusivamente sulla base di una comparazione oggettiva degli interessi in gioco nella situazione concreta, tra i quali vi è indubbiamente l’interesse pubblico all’adempimento di doveri istituzionali che incombono su tali soggetti . Pertanto, il fondamento dell’esimente di cui all’art. 54 c.p., anche nell’ipotesi del secondo comma, è sempre da ricercarsi in un preventivo bilanciamento d’interessi, all’esito del quale l’ordinamento può valutare la sussistenza di una proporzione tra i beni in conflitto . D’altra parte, proprio la circostanza per la quale la funzione dell’esimente di cui all’art. 54 c.p. è quella di operare un (preventivo) bilanciamento d’interessi, si pone alla base dei progetti di riforma che tendono ad attenuare la rigidità dell’attuale disciplina, precisando che la scriminante non è applicabile a chi «essendo tenuto ad esporsi al pericolo, agisca per salvare un interesse proprio la cui superiorità non sia di particolare rilevanza» .
2005
978-88-97840-00-8
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