In Italia il reato di riciclaggio nasce nel 1978 come un reato-mezzo, uno strumento legislativo per perseguire scopi che trascendono il comportamento vietato dalla norma incriminatrice, segnato dai caratteri tipici della legislazione dell’emergenza, rivolta più al risultato simbolico che all’effettività della fattispecie. All’ineffettività dell’incriminazione, risultato della limitazione dei reati-presupposto, si è posto rimedio solo con la legge n. 358/1993, emanata in esecuzione e ratifica dei protocolli internazionali che, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, hanno orientato la strategia transnazionale di lotta contro il riciclaggio; una lotta iniziata, non a caso, in coincidenza con lo sviluppo del processo di «globalizzazione», intendendo come tale la maggiore integrazione tra i paesi e i popoli del mondo, determinata dall’enorme abbattimento dei costi dei trasporti e delle comunicazioni e dall’eliminazione delle barriere artificiali alla circolazione internazionale di beni, servizi, capitali, conoscenza e (in minore misura) persone. Parallelamente all’evoluzione del processo di integrazione globale, venivano create, o conoscevano importanti trasformazioni nel loro funzionamento, istituzioni transnazionali che, oggi, hanno come scopo proprio quello di governare la “globalizzazione” nei suoi aspetti economici e commerciali e che, ben presto, hanno dovuto estendere l’ambito di operatività anche ai profili criminali legati alla stessa globalizzazione. Tale situazione, che forma oggetto di studio e alimenta il dibattito politico a livello mondiale, e che è stata definita altresì come «governo senza organi di governo», è stata anche vista come il paradigma di una nuova «Autorità imperiale», una forma di potere che si propone come una struttura sistemica, dinamica e flessibile, articolata orizzontalmente, dotata di una logica strutturale impercettibile e, a un tempo, sempre più efficace, che mantiene tutti gli attori all’interno dell’ordine globale. In un ordine globale di questo genere, l’equilibrio e la stabilità economica e finanziaria rappresentano, al tempo stesso, le condizioni essenziali per l’esistenza del sistema e gli obiettivi da perseguire. In un simile contesto, quindi, non si poteva mancare di avvertire come esiziale l’invasione di capitali “sporchi” sui mercati internazionali e di percepire, anche a livello globale, la reale offensività del riciclaggio che, quindi, diveniva finalmente un’entità autonoma anche sotto il profilo politico-criminale e come tale iniziava ad essere affrontata nelle Convenzioni e nei protocolli internazionali recepiti in Italia. In tal modo, spinto dalla necessità di conformarsi agli accordi internazionali, anche il legislatore italiano ha preso atto del disvalore autonomo del riciclaggio, costituito in primo luogo dall’inquinamento e dalla destabilizzazione dei mercati. Tuttavia, la svolta impressa dagli attentati dell’11 settembre 2001 alla lotta contro il terrorismo ha prodotto un sempre più massiccio ricorso agli organismi e alle norme pensate per combattere il riciclaggio, facendone altrettanti strumenti di una guerra internazionale contro il finanziamento del terrorismo che rischia di produrre una pericolosa deriva della strategia transnazionale di lotta contro il riciclaggio. Soprattutto nelle determinazioni del «Gruppo di azione finanziaria per la lotta al riciclaggio dei capitali» (GAFI), il più importante organismo internazionale di lotta contro il riciclaggio, si leggono tracce di un pericoloso ritorno alla logica dell’emergenza, oltre che i sintomi di una possibile svolta «politica» nella lotta contro il crimine internazionale. Si tratta di un approccio “deviante” al problema del ruolo che il diritto penale internazionale deve avere nella società globalizzata, un approccio che allontana la prospettiva di costruire un diritto penale che varchi le frontiere geografiche, culturali, razziali e religiose per attestarsi come strumento di difesa dei diritti umani, facendone invece uno strumento di divisione e di possibile strumentalizzazione politica.

Evoluzione e deriva del sistema transnazionale di lotta contro il ricilaggio

DE VITA, ALBERTO
2003-01-01

Abstract

In Italia il reato di riciclaggio nasce nel 1978 come un reato-mezzo, uno strumento legislativo per perseguire scopi che trascendono il comportamento vietato dalla norma incriminatrice, segnato dai caratteri tipici della legislazione dell’emergenza, rivolta più al risultato simbolico che all’effettività della fattispecie. All’ineffettività dell’incriminazione, risultato della limitazione dei reati-presupposto, si è posto rimedio solo con la legge n. 358/1993, emanata in esecuzione e ratifica dei protocolli internazionali che, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, hanno orientato la strategia transnazionale di lotta contro il riciclaggio; una lotta iniziata, non a caso, in coincidenza con lo sviluppo del processo di «globalizzazione», intendendo come tale la maggiore integrazione tra i paesi e i popoli del mondo, determinata dall’enorme abbattimento dei costi dei trasporti e delle comunicazioni e dall’eliminazione delle barriere artificiali alla circolazione internazionale di beni, servizi, capitali, conoscenza e (in minore misura) persone. Parallelamente all’evoluzione del processo di integrazione globale, venivano create, o conoscevano importanti trasformazioni nel loro funzionamento, istituzioni transnazionali che, oggi, hanno come scopo proprio quello di governare la “globalizzazione” nei suoi aspetti economici e commerciali e che, ben presto, hanno dovuto estendere l’ambito di operatività anche ai profili criminali legati alla stessa globalizzazione. Tale situazione, che forma oggetto di studio e alimenta il dibattito politico a livello mondiale, e che è stata definita altresì come «governo senza organi di governo», è stata anche vista come il paradigma di una nuova «Autorità imperiale», una forma di potere che si propone come una struttura sistemica, dinamica e flessibile, articolata orizzontalmente, dotata di una logica strutturale impercettibile e, a un tempo, sempre più efficace, che mantiene tutti gli attori all’interno dell’ordine globale. In un ordine globale di questo genere, l’equilibrio e la stabilità economica e finanziaria rappresentano, al tempo stesso, le condizioni essenziali per l’esistenza del sistema e gli obiettivi da perseguire. In un simile contesto, quindi, non si poteva mancare di avvertire come esiziale l’invasione di capitali “sporchi” sui mercati internazionali e di percepire, anche a livello globale, la reale offensività del riciclaggio che, quindi, diveniva finalmente un’entità autonoma anche sotto il profilo politico-criminale e come tale iniziava ad essere affrontata nelle Convenzioni e nei protocolli internazionali recepiti in Italia. In tal modo, spinto dalla necessità di conformarsi agli accordi internazionali, anche il legislatore italiano ha preso atto del disvalore autonomo del riciclaggio, costituito in primo luogo dall’inquinamento e dalla destabilizzazione dei mercati. Tuttavia, la svolta impressa dagli attentati dell’11 settembre 2001 alla lotta contro il terrorismo ha prodotto un sempre più massiccio ricorso agli organismi e alle norme pensate per combattere il riciclaggio, facendone altrettanti strumenti di una guerra internazionale contro il finanziamento del terrorismo che rischia di produrre una pericolosa deriva della strategia transnazionale di lotta contro il riciclaggio. Soprattutto nelle determinazioni del «Gruppo di azione finanziaria per la lotta al riciclaggio dei capitali» (GAFI), il più importante organismo internazionale di lotta contro il riciclaggio, si leggono tracce di un pericoloso ritorno alla logica dell’emergenza, oltre che i sintomi di una possibile svolta «politica» nella lotta contro il crimine internazionale. Si tratta di un approccio “deviante” al problema del ruolo che il diritto penale internazionale deve avere nella società globalizzata, un approccio che allontana la prospettiva di costruire un diritto penale che varchi le frontiere geografiche, culturali, razziali e religiose per attestarsi come strumento di difesa dei diritti umani, facendone invece uno strumento di divisione e di possibile strumentalizzazione politica.
2003
88-348-3450-X
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11367/15273
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